La giustizia prima e dopo il Covid-19

Ieri, su questo blog, ho avuto modo di affrontare il tema della giustizia dimenticata in tempo di pandemia (cfr. https://avvocatisquillaciotigrillo.blogspot.com/2020/05/covid-19-la-giustizia-dimenticata.html?m=1); oggi riprendo il tema specifico ma allargo anche l’orizzonte alla normale gestione dell’amministrazione della giustizia in Italia, fornendo dati e numeri che, di solito, i non addetti ai lavori non conoscono o a cui non si sono mai interessati.
Continuo il ragionamento partendo dalle parole di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali che oggi, su Il Foglio, ha scritto un illuminante editoriale sullo stato dell’amministrazione della giustizia ai tempi della fase 2 dell’era Covid: “La pandemia ci ha detto che il Re è nudo. Scoccata la fase due, la giurisdizione è nel più totale marasma. Ognuno per suo conto, senza gli strumenti minimi per governare una simile emergenza. Risultato? Tutto chiuso, ripresa dei processi tra lo zero ed il venti per cento. Personale amministrativo in smart working all’amatriciana, visto che da casa non possono collegarsi alle banche dati riservate e nemmeno gestire una pec. E soprattutto, decisioni insindacabili. C’è chi apre due aule, chi cinque, chi fa i processi nel cortile, ma in linea di massima l’idea ad oggi vincente è: tutto chiuso. Tanto gli stipendi arrivano puntuali in banca, e gli avvocati si arrangino. In un sistema giudiziario già collassato, questo gioco irresponsabile all’accumulo di un futuro arretrato totalmente ingestibile va in scena senza che nessuno possa metterci bocca. Se un giudice oggi rinvia la causa a febbraio 2021, in una città con zero o dieci nuovi contagi al giorno, non c’è nessuno, ma dico nessuno, che possa chiedergliene conto, a cominciare dallo stesso capo dell’ufficio. Monadi ingovernabili in piccoli o meno piccoli granducati, governati da sovrani che stabiliscono loro se c’è il rischio epidemico oppure no. Un disastro catastrofico: vuoi vedere che sia la volta buona che lo si capisca?”.
Come anticipato la questione è di più ampio respiro e già Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia oggi in pensione, nel libro “La stagione dell’indulgenza e i suoi frutti avvelenati” pubblicato nel 2017, avvisava che la lunghezza dei processi fosse uno dei fattori che influenzava l’andamento dell’economia in Italia con una perdita pari a quasi il 2% del PIL. 
Prima di lui, anche Mario Draghi nel 2011 esprimeva il suo allarme e precisava che i soli ritardi della giustizia civile valessero 1 punto di PIL all’anno.


Più di recente, proprio nel mese di marzo 2020, appena prima delle misure di lockdown, i dati ci dimostrano che il numero complessivo dei procedimenti civili in corso negli uffici giudiziari italiani assomma a circa 3.300.000 unità; di questi, il 20% ha ampiamente oltrepassato i termini di ragionevole durata del processo previsti dalla legge (tre anni in primo grado, due in secondo e uno in terzo) e per i quali, quindi, le parti in causa hanno il diritto di richiedere un'equa riparazione dallo Stato per il danno subito. 
Come siamo messi a livello continentale? La Commissione Europea nell’aprile 2019, nel quadro di valutazione della giustizia, ha reso noto che, su 25 stati membri esaminati, l’Italia è risultata terzultima per la durata dei processi civili e commerciali in primo grado, con una durata media passata dai 517 giorni del 2016 ai 548 giorni del 2017.
In sintesi: nel Belpaese per una sentenza di secondo grado (appello) occorrono 843 giorni, e per il terzo grado (Cassazione) ben 1.299 giorni, ossia i tempi in assoluto più lunghi fra tutti gli Stati sottoposti ad indagine conoscitiva.
Inoltre, siamo all’ultimo posto in graduatoria anche in relazione all’arretrato, cioè le cause civili e commerciali pendenti non definite entro la fine di ogni anno. E questo in tempi di ordinaria amministrazione…
Un ultimo dato su cui riflettere e che emerge dai dati Eurostat e Cepej (cfr. https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-la-giustizia-italiana-e-davvero-sottofinanziata) è che complessivamente l’Italia non spende meno risorse per la giustizia rispetto alla media europea, ma ciò nonostante il personale a disposizione è decisamente inferiore alla media. Questo sembra dipendere dal fatto che in Italia i giudici e i pubblici ministeri, pur essendo relativamente pochi, guadagnano di più che all’estero in rapporto al salario medio nazionale.

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