Covid-19: falsità in autocertificazione e processo alle intenzioni

 



Con sentenza del 16 novembre 2020, il GIP del Tribunale di Milano, dott. Roberto Crepaldi, si è pronunciato sulla falsità in autocertificazione e divieti di spostamento causa Covid-19 in relazione alle attestazioni circa le proprie intenzioni di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una determinata attività.

Questi i fatti: all’imputato è stata contestata la fattispecie di cui all’art. 76 DPR 445/2000 in relazione all’art. 483 c.p. in quanto, in sede di autodichiarazione consegnata ai Carabinieri nell’ambito dei controlli sul rispetto delle misure di contenimento COVID-19, aveva riferito che si stava recando presso un collega per ritirare dei pezzi di ricambio, circostanza, poi, rivelatasi non vera a seguito delle indagini effettuate dalla polizia giudiziaria.

Queste le norme: 1) “Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni.” Prevista dall’art. 483 c.p. rubricato “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” e 2) Art. 76 DPR 445/2000 (Norme penali) “1. Chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia. 2. L'esibizione di un atto contenente dati non più rispondenti a verità equivale ad uso di atto falso. 3. Le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 e le dichiarazioni rese per conto delle persone indicate nell'articolo 4, comma 2, sono considerate come fatte a pubblico ufficiale. 4. Se i reati indicati nei commi 1, 2 e 3 sono commessi per ottenere la nomina ad un pubblico ufficio o l'autorizzazione all'esercizio di una professione o arte, il giudice, nei casi più gravi, può applicare l'interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione e arte.”.

Questa la decisione: nella sentenza si legge che sebbene “non vi siano dubbi circa il fatto che l’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria va, tuttavia, escluso che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione, in quanto l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale <<fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità>>”.

Il GIP milanese fa proprio l’orientamento giurisprudenziale a mente del quale “sono estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. le dichiarazioni che non riguardino <<fatti>> di cui può essere attestata la verità hic et nunc ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi” e, pertanto, osserva come tale argomentazione possa attagliarsi anche al caso di specie:

1) in relazione al dato testuale, “giacché la nozione di “fatto” non può che essere riferita a qualcosa che già è accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza della intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post”;

2) in ordine al profilo teleologico, “giacché la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al pubblico ufficiale in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita ad un evento non ancora accaduto”;

3) in un’ottica sistematica, “dalla stessa normativa in tema di autocertificazioni, all’interno della quale i <<fatti>> sono indicati, quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personali, vale a dire a caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione”.

Ne consegue, prosegue il giudice meneghino nella pronuncia in commento, che “mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de quo, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei <<fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità>>”.

La sentenza, infine, richiamata anche la dottrina prevalente, precisa: “il nostro ordinamento non incrimina qualunque dichiarazione falsa resa ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio ma costruisce i reati di falso secondo una sistematica casistica: ne consegue che il rilievo della falsa dichiarazione è legato all’individuazione di una specifica norma che dia rilevanza al contesto e alla singola dichiarazione”; ne risulta, “per le ragioni appena espresse, che la dichiarazione di una mera intenzione nell’ambito di un modulo di autocertificazione non può rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 483 c.p., limitato ai soli <<fatti>> già occorsi”.

Insomma: per una volta, almeno, è vero il detto che non si fanno processi alle intenzioni!


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