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mercoledì 21 luglio 2021

La Cedu e i ricorsi dei poliziotti

 


Ultimo appuntamento sui fatti del G8 di Genova del 2001 con due pronunce di strettissima attualità rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

È proprio di questi giorni di metà luglio, infatti, la notizia che la Corte di Strasburgo ha dichiarato irricevibili i ricorsi presentati da alcuni poliziotti condannati per l’irruzione nella scuola Diaz.

Secondo uno dei ricorrenti “l’esame condotto dalla Corte di Cassazione non è stato effettivo ed equo, poiché la stessa non ha realmente preso in considerazione, confutandole, le ragioni di doglianza esposte dai ricorrenti (…). In particolare la violazione delle disposizioni normative sopra richiamate deve essere individuata, sia in relazione alla sentenza della Corte di Appello che ha ribaltato il giudizio di assoluzione del Tribunale, che in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso degli odierni esponenti, nei seguenti profili che di seguito di sintetizzano: nell'aver affermato la Corte di Appello di avere integralmente riportato la relazione di servizio dell'agente …, quando invece la stessa è stata riportata solo in parte, restando esclusa proprio quella parte in cui è scritto che vi erano due incisioni sul corpetto protettivo (prova inconfutabile del fatto che non esistono due versioni del fatto ma una sola) e che si era accorto di essere stato accoltellato solo in un secondo momento”. 

Inoltre, il ricorso sarebbe meritevole di accoglimento per “aver la Corte di Cassazione del tutto omesso di valutare tale aspetto arrivando poi addirittura ad affermare che nella relazione di servizio è scritto che vi era un taglio sul giubbotto e un'incisione sul corpetto sottostante, affermazione documentalmente riconoscibile come falsa”, e “nell'aver fatto riferimento la Corte di Appello ad un atto (…) non acquisito e non acquisibile a dibattimento quale ragione del supposto (in realtà inesistente) cambio di versione dell'Agente…”

Secondo un altro ricorrente, invece, “l’intero processo è basato su un materiale probatorio carente e lacunoso, e tuttavia, ciò non ha portato ad una sentenza assolutoria ma ad un accertamento della responsabilità penale a prescindere dalle risultanze processuali. Le fonti testimoniali raccolte dal giudice della cognizione erano già valse a decretare l’archiviazione del procedimento nei confronti dei presunti aggressori. Nonostante la scelta della pubblica accusa di chiedere l’archiviazione delle imputazioni nei confronti dei possibili esecutori materiali delle violenze, evidentemente determinata dalle difficoltà incontrate nella loro individuazione, gli imputati sono stati dichiarati responsabili per i reati loro ascritti, dal Tribunale di Genova” e “venivano condannati a tre anni di reclusione (interamente condonati) e alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena”.

E continua, “Si osserva… come tale processo, durato quasi otto anni, è stato caratterizzato da un interesse mediatico ed una pressione sociale senza precedenti, che esorbitava anche dai confini nazionali. Di tale aspetto è ben consapevole il giudice di prime cure, il quale sente la necessità di scrivere, nella sentenza, che ‘non appare innanzitutto superfluo, attesa la rilevanza mediatica del presente procedimento e le generali aspettative circa le sue conclusioni, ricordare che il compito di questo Collegio è esclusivamente quello di valutare, secondo le regole stabilite dalla normativa vigente, gli elementi probatori acquisiti in giudizio, ed in base a tali elementi accertare quindi le eventuali responsabilità personali dei singoli imputati in ordine ai reati loro specificamente ascritti. Esula dunque da tale giudizio qualsiasi diversa valutazione complessiva, di natura politica, sociale od anche di semplice opportunità, circa i fatti in oggetto’…”.

Tuttavia, al di là delle ricostruzioni dei ricorrenti la Corte con sede a Strasburgo, sia in un caso che nell’altro, è stata perentoria nel riconoscere l’infondatezza dei ricorsi.

E così, in relazione al primo ricorso, la CEDU “riunitasi il 24 giugno 2021 in veste di giudice unico ai sensi degli articoli 24.2 e 27 della Convenzione, ha esaminato il ricorso summenzionato così come è stato presentato. La Corte ritiene che, nella misura in cui il ricorrente denuncia la valutazione delle prove e l'interpretazione del diritto da parte delle giurisdizioni interne e contesta l'esito della procedura, il ricorso fa fronte ad una ‘quarta istanza'. Il ricorrente ha potuto presentare le sue ragioni in tribunale alle quali è stata data risposta con decisioni che non sembrano essere arbitrarie o manifestamente irragionevoli, e non ci sono prove che suggeriscano il fatto che il procedimento è stato ingiusto. Ne consegue che queste accuse sono manifestamente infondate ai sensi dell'articolo 35.3 a) della Convenzione. La Corte dichiara il ricorso irricevibile”.

Anche in relazione al secondo ricorso, la Cedu “riunitasi il 24 giugno 2021 in veste di giudice unico ai sensi degli articoli 24.2 e 27 della Convenzione, ha esaminato il ricorso summenzionato come è stato presentato. Il ricorso si basa sull'articolo 6.1 della Convenzione. Alla luce di tutte le prove di cui dispone, la Corte ritiene che i fatti presentati non rivelino alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi Protocolli. Ne consegue che queste accuse sono manifestamente infondate ai sensi dell'articolo 35.3 a) della Convenzione. La Corte dichiara il ricorso irricevibile”.

In sintesi, secondo la Corte EDU, dai Tribunali italiani in relazione ai fatti di Genova del 2001 sono pervenute decisioni né arbitrarie né manifestamente irragionevoli.


martedì 20 luglio 2021

Genova, i fatti della Caserma di Bolzaneto e la Cassazione

 


Continua l’analisi, seppur succinta, delle sentenze della Corte di Cassazione relative ai fatti di Genova del 2001.

Oggi tratteremo dei fatti avvenuti all’interno della caserma di Bolzaneto in occasione del G8 del luglio 2001.

La sentenza della Corte di Cassazione n°37088 del 2013 ha sostanzialmente confermato il giudizio della Corte d’Appello di Genova del 5 marzo 2010.

In verità, soltanto sette delle condanne sono state confermate in via definitiva, in quanto tutti gli altri reati contestati ai 45 imputati sono stati dichiarati prescritti: è facile obiettare che la risposta offerta dall’ordinamento penale italiano innanzi a gravissime violazioni dei diritti fondamentali sia stata del tutto inefficace; e ciò  –per una volta almeno– non per cause imputabili ai singoli magistrati che hanno seguito il caso ma per ragioni dovute alla mancanza di una norma incriminatrice della tortura, con uno specifico apparato sanzionatorio e uno specifico regime di prescrizione del reato.

Secondo la Cassazione, la sentenza della Corte d’Appello “ha chiarito essersi raggiunta la prova dell’effettiva percezione” da parte dei dirigenti presenti nella Caserma di Bolzaneto “di quanto andava accadendo: e ciò in quanto gli illeciti che venivano compiuti producevano fonti visive, sonore e olfattive del tutto inequivocabili per chi, operando in quel ristretto ambito spaziale e muovendosi al suo interno, in quegli stessi eventi si trovava immerso alla stregua di un testimone oculare”.

Insomma, non il mero “non poteva non sapere”…

Poiché era impossibile “che all’interno della struttura potessero sfuggire a chicchessia le risonanze vocali (cioè gli ordini, i pianti, le grida, i lamenti, i cori), le risonanze sonore (cioè i transiti, le cadute, i colpi), le percezioni olfattive (cioè la puzza dell’urina, l’odore del gas urticante spruzzato, l’odore del vomito, del sudore e del sangue) e le tracce lasciate sui volti, sui corpi, sugli abiti, negli sguardi, negli ansiti e nella voce delle vittime”  -si legge nella pronuncia-  la responsabilità di quanti si trovavano in posizione di comando per aver avuto consapevolezza di tutto ciò e non averlo impedito è stata esattamente inquadrata sulla posizione di garanzia che essi rivestivano, secondo lo schema del concorso omissivo individuato dall’art. 40, comma 2, del codice penale.

La Cassazione, inoltre, ha precisato che “le vessazioni imposte ai detenuti furono continue e diffuse in tutta la struttura; non risulta, infatti, dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiar posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso i bagni o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite dai testi”.

Secondo gli Ermellini, infine, “la Corte d’Appello ha dato conto in modo chiaro, e conforme ai canoni della logica, delle ragioni per cui ha ritenuto che l’illecito fosse stato commesso per motivi abietti e futili”, nello specifico la sentenza ha evidenziato come le singole condotte fossero incluse “in un generale contesto di ingiustificate vessazioni ai danni dei fermati, non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”.

Come ripetutamente accennato, non avendo all’epoca il Legislatore provveduto a normare il reato di tortura e/o di trattamenti inumani o degradanti, i fatti di violenza, minacce e ingiurie perpetrati nella Caserma Bolzaneto vennero qualificati dai Pubblici Ministeri, a seconda dei casi, come:

– lesioni personali gravi (art. 583, comma 1, c.p.), punibili con la reclusione da tre a sette anni;

– lesioni personali (art. 582 c.p.), punibili con la reclusione da tre mesi a tre anni;

– percosse (art. 581 c.p.), punibili con la reclusione da quindici giorni a sei mesi o con una pena pecuniaria;

– violenza privata (art. 610 c.p.), punibile con la reclusione da quindici giorni a quattro anni;

– abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), punibile con la reclusione da sei mesi a tre anni;

– abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), punibile con la reclusione da quindici giorni a trenta mesi;

– minaccia (art. 612 c.p.), punibile con la pena pecuniaria sino a € 51 ovvero, se la minaccia è grave, con la reclusione da quindici giorni a un anno;

– ingiuria (art. 594), punibile con la reclusione da quindici giorni a sei mesi e con la pena pecuniaria.

Ed ecco spiegato perché la prescrizione si è abbattuta come una scure sulla maggior parte di quei reati.


lunedì 19 luglio 2021

Genova, la scuola Diaz e la Cassazione

 


In vista del ventesimo anniversario del G8 di Genova del 2001, prosegue l’approfondimento giuridico di quegli eventi.

Il 5 luglio 2012, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha messo un punto fermo ai fatti della scuola Diaz.

A venti anni da quegli avvenimenti è utile discutere in punto di diritto di quanto è accaduto in quei giorni a Genova.

La sentenza n°38085 della Suprema Corte, innanzitutto, ricostruisce il quadro nel quale si inseriscono i fatti oggetto del processo: le violenze perpetrate presso la scuola Diaz sono state di una gravità straordinaria, comprovata dalla circostanza che le violenze si sono abbattute contro «persone inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e spesso, con la loro posizione seduta, in manifesta attesa di disposizioni»; una brutalità, perciò, «non giustificata [...], punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». 

Insomma, una violenza che secondo gli Ermellini ha integrato a tutti gli effetti quella speciale fattispecie di “tortura” delineata dalla Convenzione ONU del 1984, o quanto meno di “trattamento inumano e degradante” vietato dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che  -secondo la giurisprudenza CEDU-  deve essere represso dagli Stati membri con rimedi concreti e attraverso processi penali che non dovrebbero essere soggetti a prescrizione.

Ovviamente, all’epoca, nell’ordinamento penale italiano ancora non risultava codificato il reato di tortura e, pertanto, porre rimedio alla denunciata violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo era compito esclusivo del Legislatore, essendo precluso anche alla Corte Costituzionale correggere in maniera peggiorativa la disciplina legislativa della prescrizione del reato.

Tornando ai fatti occorre, innanzitutto, precisare che la Suprema Corte ritiene legittima la perquisizione effettuata ai sensi dell’art. 41 T.U.L.P.S. all’interno della scuola: l’aggressione alle pattuglie della polizia avvenuta in via Cesare Battisti, nei pressi della scuola, e la conversazione telefonica intercorsa tra il capo della Digos Mortola e il coordinatore del Genoa Social Forum Kovac «avevano fatto sì che non potesse escludersi in modo assoluto la presenza di armi all’interno del plesso scolastico»: il che, appunto, è sufficiente per sostenere la sostanziale legittimità dell’operazione.

Illegittimi, però, furono i metodi con cui fu eseguita l’operazione di “messa in sicurezza” e di perquisizione dell’edificio, attuata con modalità di fatto militari, come attestano: «l’elevato  numero di operatori adoperati (circa 500, tra agenti di polizia e carabinieri, questi ultimi incaricati solo della cd. cinturazione degli edifici)»; la manovra “a tenaglia” pianificata per avvicinarsi al plesso scolastico; la «mancata indicazione della modalità operativa alternativa al lancio dei lacrimogeni inizialmente proposta da Vincenzo CANTERINI, Comandante del I Reparto Mobile di Roma della Polizia di Stato»; e, soprattutto, la «accertata e incontroversa mancata indicazione delle “regole di ingaggio” impartite agli operatori di p.g.».

Tanto ciò corrispondeva al vero  -prosegue la sentenza-  «che nessuno degli imputati [...] aveva mai posto in dubbio che l’esito dell’operazione era stato l’indiscriminato e gratuito “pestaggio” di pressoché tutti gli occupanti il plesso scolastico, preceduto dall’altrettanto gratuita aggressione portata dagli operatori di polizia nei confronti di cinque inermi  persone che si trovavano fuori dalla scuola (il giornalista inglese Mark COVELL, che ha subìto la frattura di otto costole e della mano, oltre l’avulsione di diversi denti, fino a perdere i sensi; Giuseppe SCRIVANI, Paolo TIZZETTI, Matteo NANNI, i quali tutti hanno con sicurezza indicato gli autori delle condotte in loro danno in appartenenti alla polizia; FRIERI, colpito con i manganelli dalla parte del manico, nonostante l’esibizione del pass, quale giornalista  -pass strappatogli e non più rinvenuto- , finché era riuscito a mostrare la tessera di consigliere comunale)».

«Altrettanto certo in causa»  -continuano i giudici-  «è stato l’esito dell’irruzione, che ha portato all’arresto, all’esterno e all’interno della scuola, di 93 persone, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione  e al saccheggio, resistenza aggravata  a pubblico  ufficiale, possesso di congegni esplosivi ed armi improprie; 87 di esse hanno riportato lesioni e due (Mark COVELL e Melanie JONASH) hanno corso pericolo di vita. Quanto alle modalità con cui sono state realizzate le lesioni in danni  degli occupanti la scuola “Diaz”, le parti offese [...] hanno concordemente riferito che tutti gli operatori di polizia, appena entrati nell’edificio, si erano scagliati sui presenti, sia che dormissero, sia che stessero immobili con le mani alzate, colpendo tutti con i manganelli (i c.d. “tonfa”) e con calci e pugni, sordi alle invocazioni di “non violenza” provenienti dalle vittime, alcune con i documenti  in mano, pure insultate al grido di “bastardi”».

«Allora è del tutto condivisibile»  -conclude la pronuncia- «perché formulato all’esito di una analisi delle risultanze probatorie condotta secondo i canoni della logica argomentativa, il giudizio espresso dalla Corte genovese di condotta cinica e sadica da parte degli operatori di polizia, in nulla provocata dagli occupanti la scuola, tanto che il Comandante del VII Nucleo, Michelangelo FOURNIER, ha, con acrobazia verbale tanto spudorata quanto risibile, dapprima parlato di “colluttazioni unilaterali”, per poi finire con l’ammettere la reale entità dei fatti, per descrivere i quali ha usato la significativa  e fotografica espressione “macelleria messicana”».

Come anticipato molti dei reati contestati sono stati dichiarati prescritti, tuttavia, stante il quadro normativo dell’epoca, la sentenza ha il pregio di aver ricostruito il “contributo causale” di ciascuno degli imputati ai reati di volta in volta contestati (dalle lesioni, alle falsità in atti, alle calunnie).


lunedì 5 luglio 2021

Il reato di tortura: dal Diaz a Santa Maria Capua Vetere


 Che i fatti di Santa Maria Capua Vetere non siano episodi isolati è una circostanza drammaticamente nota a chi abbia minimamente voglia di informarsi e di approfondire a partire quanto meno dai tragici eventi della scuola Diaz di cui quest’anno ricorre il ventennale.

Nel solo 2021, ad esempio, possiamo registrare le condanne per tortura inflitta a persone detenute per i casi di Ferrara e San Gimignano. Ci sono, poi, i fatti, ancora al vaglio della Magistratura, per torture nelle carceri di Firenze, Torino, Palermo, Milano Opera e Melfi. E questa è solo la punta dell’iceberg.

Dal punto di vista normativo vale la pena ricordare che nel nostro ordinamento solo all’esito di un lungo e complesso iter parlamentare, con la legge n°110 del 2017 sono stati introdotti i reati di tortura e di istigazione alla tortura.

E anche in questo caso, come per tanti altri, lo stimolo per legiferare è pervenuto dall’esterno ed è stato pure malamente realizzato in Paese che è culturalmente allergico alla tutela dei diritti dei detenuti e che considera le carceri un buco nero dove abbandonare i “rifiuti” della società.

Infatti, occorre richiamare alla memoria i tanti atti internazionali affermano che nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti: tra gli altri, la Convenzione di Ginevra del 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (ratificata dalla L. n°848/1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificato dalla L. n°881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 e, soprattutto, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall’Italia con la legge n°489/1988.

Più nello specifico, la citata Convenzione ONU del 1984 contro la tortura prevede l’obbligo per gli Stati di adottare una precisa normativa interna affinché qualsiasi atto di tortura sia espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale nazionale (articolo 4). 

Per tortura ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della Convenzione deve intendersi “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso, o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate”. 

Nella CAT, quindi, la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente correlata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni di libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica. La tortura è, pertanto, qualificata come reato proprio del pubblico ufficiale che trova la sua peculiare manifestazione nell’abuso di potere, quindi nell’esercizio arbitrario ed illegale di una forza legittima.

Come anticipato, l’articolo 1 della legge n°110 del 2017 ha introdotto nel codice penale - titolo XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale) - i reati di tortura (art. 613-bis) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter), connotando l’illecito in modo solo parzialmente coincidente con la Convenzione ONU del 1984 che, in particolare come annotato innanzi, definisce la tortura come reato proprio del pubblico ufficiale.

Come può leggersi sul sito della Camera dei Deputati, XVII Legislatura, “…l’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Rispetto all’art. 1 della Convenzione ONU del 1984, che prevede una condotta a forma libera da parte dell’autore del reato, l’art. 613-bis prevede esplicitamente che la tortura si realizza mediante violenze o minacce gravi o crudeltà (ovvero con trattamento inumano e degradante)…”.

Insomma, come spesso accade nel Belpaese, le cose vengono fatte a metà, in maniera superficiale ed incompleta né sono servite le condanne della CEDU all’Italia per le vicende avvenute nella scuola Diaz in quanto “…in virtù dell’articolo 19 della Convenzione, e conformemente al principio che vuole che la Convenzione garantisca dei diritti non teorici o illusori ma concreti ed effettivi, la Corte deve assicurarsi che lo Stato adempia come si deve all’obbligo di tutelare i diritti delle persone che rientrano nella sua giurisdizione. Di conseguenza, la Corte deve mantenere la sua funzione di controllo e intervenire nel caso esista una evidente sproporzione tra la gravità dell’atto e la sanzione inflitta. Altrimenti, il dovere che hanno gli Stati di condurre un’inchiesta effettiva perderebbe molto del suo senso”.

Ma tant’è!

Per riprendere il filo del discorso della normativa sul reato di tortura e per chiarire anche alcune questioni sollevate dai fatti di Santa Maria Capua Vetere vale la pena aggiungere alcune ulteriori considerazioni e precisazioni.

Tullio Padovani, già Professore ordinario di Diritto Penale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ascoltato nel corso dell’esame parlamentare della proposta di legge per l’inserimento nel codice penale del delitto di tortura (AC. 2168), in Commissione giustizia nel maggio 2014, ebbe poi modo di sintetizzare il suo pensiero all’esito dell’approvazione della legge istitutiva del reato di tortura: “La Convenzione internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984, entrata in vigore per l’Italia l’11 febbraio 1985, impone (art. 4) ad ogni Stato-parte di vigilare «affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressione nei confronti del suo diritto penale» e di rendere «tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità». Il nostro – si sa – è un paese ad alto tasso di ponderazione, lesto nel promettere e cauto nel mantenere, pronto all’impegno e riluttante all’adempimento: tanto riflessivo da risultare meditabondo. Più di ventott’anni son trascorsi, ed alla fine, il patrio legislatore, dopo un andirivieni mortificante tra legislature ed esami parlamentari, ha inteso rendere ossequio e prestare osservanza all’obbligo internazionale assunto prima ancora della caduta del muro di Berlino. Meglio tardi che mai, verrebbe fatto di dire; e così si direbbe in effetti, se ci si limitasse alla lettura della rubrica dell’art. 613 bis c.p. introdotto dall’art. 1, c.1, l. 14 luglio 2017, n. 110: un icastico «Tortura». Ma la lettura del testo induce ad un più desolato giudizio: meglio mai. Meglio il bollo della vergogna per lo sconcio inadempimento, che la vergogna di un adempimento apparente, ipocrita nella forma, dissennato nei contenuti, miserando nella finalità. La lista delle improntitudini è tanto lunga che ad esporla in tutti i punti col dovuto rigore serve un saggio, se non una monografia: le fattispecie ‘capovolte’ che sono, in qualche modo, il simmetrico contrario di principi, regole, norme su cui si erge il sistema, lo evocano, scuotendolo in ogni sua parte; sì che su di esse dovrebbe riversarsi la reazione del sistema tutto, così come, in presenza di una cellula cancerosa, si mobilita, per eliminare l’intrusa pericolosa, l’intero sistema immunitario: quando è efficiente, però; altrimenti è il cancro che si sviluppa”.

In sintesi, per così come è stata redatta, la norma è “la vergogna di un adempimento apparente, ipocrita nella forma, dissennato nei contenuti, miserando nella finalità”.

E ciò a voler tacere anche che, il 16 giugno 2017, alla vigilia dell’approvazione finale da parte della Camera, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, avesse indirizzato ai Presidenti di entrambe le Camere, delle Commissioni Giustizia di ciascuna di esse e al senatore Manconi, quale Presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani costituita presso il Senato, una nota con cui rappresentava serie perplessità su taluni aspetti del testo approvato dal Senato e ritrasmesso alla Camera, che, a suo avviso, apparivano in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e con la Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura – UNCAT.

In particolare, le preoccupazioni espresse dal Commissario erano relative al fatto che, per la configurabilità del reato di tortura, fossero necessarie “più condotte di violenza o minacce gravi ovvero crudeltà”; che la tortura venisse configurata anche in presenza di trattamenti inumani e degradanti (laddove l’articolo 3 della Convenzione EDU prevede la disgiuntiva “trattamenti inumani o degradanti”); inoltre, specificamente in relazione alla tortura di tipo psicologico, che essa cagioni un trauma verificabile sotto tale profilo. 

La nota del Commissario europeo ribadiva ulteriori divergenze della definizione contenuta nella proposta di legge rispetto a quella di cui all’art. 1 della Convenzione ONU sulla tortura e che ciò comportava il concreto rischio che episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restassero non normati, dando luogo a casi di impunità. Inoltre la nota, considerato che il testo approvato dal Senato adottava una definizione ampia di tortura che ricomprendeva anche i comportamenti di privati cittadini, sottolineava l’importanza di garantire che questo non conducesse a indebolire la tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali.

Ovviamente. la nota è stata completamente disattesa.

Eppure, anche l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) statuisce che nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.

La Corte di Strasburgo ha più volte stabilito che il divieto di tortura non consente eccezioni, né limitazioni, né bilanciamenti di alcun genere, né soffre alcuna possibilità di deroga in quanto siamo di fronte ad una norma cardine per la tutela psico-fisica dell’individuo. 

Checché ne dicano i soliti benpensanti per cui le guardie penitenziarie erano stressate, stanche per i turni massacranti, preoccupate per il contagio da covid o perché semplicemente reagivano alle proteste dei ristretti…

Concludo proprio con le parole della sentenza del 22/06/2017 della Corte Europea Diritti dell'Uomo, sez. I, sul caso Diaz: “La tortura costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia. E, in effetti, nasce là dove mancano, o sono indebolite, tutte quelle garanzie istituzionali processuali che della democrazia sono l’espressione indispensabile. Democrazia significa rispetto della dignità della persona; tortura significa umiliazione o annientamento di quella dignità”.


giovedì 1 luglio 2021

I referendum sulla giustizia


 Come noto, la Lega e il Partito Radicale hanno depositato presso la Corte di Cassazione sei quesiti per altrettanti referendum sulla giustizia. 

Il comitato promotore, guidato da Matteo Salvini e Maurizio Turco, si propone, attraverso lo strumento referendario, di modificare in maniera sostanziale alcuni aspetti salienti dell’organizzazione della magistratura italiana ma anche di introdurre un limite alla custodia cautelare e, infine, l’abolizione della legge Severino nella parte relativa all’incandidabilità.

Ma vediamo i quesiti in dettaglio:

Primo quesito: responsabilità dei magistrati.

Il quesito interviene sul testo della legge 13/04/1988 n°117 (c.d. legge Vassalli), che disciplina il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e la responsabilità civile dei magistrati. Secondo le norme attualmente in vigore, il cittadino che si reputa danneggiato non può citare direttamente in giudizio il magistrato ma può rivolgersi allo Stato, il quale poi, in caso di esito positivo del giudizio, si rivarrà sul magistrato. Con il referendum, viceversa, si chiede l’eliminazione di questa preclusione e la possibilità per il cittadino di agire per il risarcimento dei danni direttamente nei confronti del magistrato. Secondo Lega e Radicali, infatti, al momento non esiste un “adeguato obbligo di rendere conto delle eventuali decisioni sbagliate assunte”.

Secondo quesito: carriere separate.

Il referendum si propone come obiettivo quello della separazione delle carriere del magistrato che, una volta scelta la funzione giudicante o requirente all’inizio della carriera, non potrebbe più passare all’altra e viceversa. Lo scopo dichiarato è quello di ottenere una netta e definitiva divisione tra la figura del pubblico ministero e quella del giudice.

Terzo quesito: la custodia cautelare.

Il carcere preventivo, secondo i promotori del quesito referendario, deve essere limitato ai soli reati gravi. Con questo referendum, allora, si chiede che venga abrogato il comma 1, lettera c) dell’articolo 274 del codice di procedura penale che, attualmente, prevede l’applicazione della custodia cautelare in carcere in caso di pericolo di reiterazione del reato. La filosofia di fondo espressa dai promotori è che il carcere preventivo è diventato “una forma anticipatoria della pena, con evidente violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza”.

È assodato, infatti, che la custodia cautelare ha sperimentato gravi abusi, comprovati dalla quantità di richieste di indennizzo per ingiusta detenzione che ogni anno vengono accolte. La “Relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali e sui provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione”, predisposta dal Ministero della Giustizia e comunicata alla Presidenza della Camera il 16 aprile 2020, indica, con dati relativi al solo anno 2019, il pagamento da parte dello Stato della somma complessiva di oltre 43 milioni di euro, a fronte di 1.000 ordinanze di liquidazione, ossia di altrettanti casi di detenzione ritenuta ingiusta. Insomma, in appena dodici mesi, almeno mille persone sono finite in carcere o agli arresti domiciliari in procedimenti penali definiti con l’assoluzione, tra l’altro senza aver dato motivo alla ingiusta privazione della libertà.

Quarto quesito: abrogazione della Legge Severino.

Per il Partito Radicale e per la Lega occorre abrogare la Legge Severino (D.Lgs. n°235/2012) in relazione alla la sanzione accessoria della incandidabilità, ineleggibilità, decadenza per parlamentari, consiglieri, governatori regionali, sindaci, amministratori locali. Questa misura viene ritenuta “sproporzionata” dai promotori del referendum e per questo ne viene chiesta l’eliminazione. In caso di successo del referendum, verrebbe meno un automatismo e si lascerebbe ai giudici, caso per caso, la facoltà di decidere, se in caso di condanna, è necessario applicare al reo anche l’interdizione dai pubblici uffici.

Quinto quesito: abolizione raccolta firme lista magistrati.

Oggi, con la normativa in vigore, il magistrato che vuole candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura deve raccogliere dalle venticinque alle cinquanta firme, in buona sostanza aderendo ad una delle correnti della magistratura. Il quesito referendario propone, allora, di abrogare questo vincolo, tornando alla disciplina del 1958 che consentiva a tutti i magistrati di proporsi come membri a Palazzo dei Marescialli senza raccogliere firme e senza il rischio del condizionamento da parte delle correnti.

Sesto quesito: novità sui consigli giudiziari.

I Consigli giudiziari sono organismi territoriali, su base distrettuale, presieduti dal presidente della Corte d’Appello e composti da magistrati togati (con sezione autonoma relativa ai giudici onorari), eletti dai magistrati del distretto, e da membri c.d. laici, nominati dal CNF-Consiglio nazionale forense, su proposta dei locali Consigli dell’Ordine degli avvocati del distretto, tra avvocati con almeno dieci anni di anzianità professionale, e infine da professori universitari di materia giuridica nominati dal Consiglio universitario nazionale, su indicazione dei presidi delle facoltà di giurisprudenza della Regione, col compito di formulare pareri sulla formazione delle tabelle degli uffici giudiziari distrettuali, nonché sui provvedimenti relativi alle carriere e all’assegnazione degli affari giudiziari dei magistrati del distretto, anche a titolo consultivo dell’attività del Consiglio Superiore della Magistratura.

Secondo il sesto e ultimo quesito del referendum, si chiede, allora, il diritto di voto agli avvocati e ai professori universitari membri dei consigli giudiziari instituiti presso i singoli distretti di Corte d’Appello sulle valutazioni professionali dei magistrati. In buona sostanza, si chiede di considerare anche i componenti non togati dei collegi giudiziari (come avvocati e professori) nelle valutazioni sulla professionalità dei magistrati.



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