Il reato di tortura: dal Diaz a Santa Maria Capua Vetere


 Che i fatti di Santa Maria Capua Vetere non siano episodi isolati è una circostanza drammaticamente nota a chi abbia minimamente voglia di informarsi e di approfondire a partire quanto meno dai tragici eventi della scuola Diaz di cui quest’anno ricorre il ventennale.

Nel solo 2021, ad esempio, possiamo registrare le condanne per tortura inflitta a persone detenute per i casi di Ferrara e San Gimignano. Ci sono, poi, i fatti, ancora al vaglio della Magistratura, per torture nelle carceri di Firenze, Torino, Palermo, Milano Opera e Melfi. E questa è solo la punta dell’iceberg.

Dal punto di vista normativo vale la pena ricordare che nel nostro ordinamento solo all’esito di un lungo e complesso iter parlamentare, con la legge n°110 del 2017 sono stati introdotti i reati di tortura e di istigazione alla tortura.

E anche in questo caso, come per tanti altri, lo stimolo per legiferare è pervenuto dall’esterno ed è stato pure malamente realizzato in Paese che è culturalmente allergico alla tutela dei diritti dei detenuti e che considera le carceri un buco nero dove abbandonare i “rifiuti” della società.

Infatti, occorre richiamare alla memoria i tanti atti internazionali affermano che nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti: tra gli altri, la Convenzione di Ginevra del 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (ratificata dalla L. n°848/1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificato dalla L. n°881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 e, soprattutto, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall’Italia con la legge n°489/1988.

Più nello specifico, la citata Convenzione ONU del 1984 contro la tortura prevede l’obbligo per gli Stati di adottare una precisa normativa interna affinché qualsiasi atto di tortura sia espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale nazionale (articolo 4). 

Per tortura ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della Convenzione deve intendersi “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso, o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate”. 

Nella CAT, quindi, la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente correlata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni di libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica. La tortura è, pertanto, qualificata come reato proprio del pubblico ufficiale che trova la sua peculiare manifestazione nell’abuso di potere, quindi nell’esercizio arbitrario ed illegale di una forza legittima.

Come anticipato, l’articolo 1 della legge n°110 del 2017 ha introdotto nel codice penale - titolo XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale) - i reati di tortura (art. 613-bis) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter), connotando l’illecito in modo solo parzialmente coincidente con la Convenzione ONU del 1984 che, in particolare come annotato innanzi, definisce la tortura come reato proprio del pubblico ufficiale.

Come può leggersi sul sito della Camera dei Deputati, XVII Legislatura, “…l’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Rispetto all’art. 1 della Convenzione ONU del 1984, che prevede una condotta a forma libera da parte dell’autore del reato, l’art. 613-bis prevede esplicitamente che la tortura si realizza mediante violenze o minacce gravi o crudeltà (ovvero con trattamento inumano e degradante)…”.

Insomma, come spesso accade nel Belpaese, le cose vengono fatte a metà, in maniera superficiale ed incompleta né sono servite le condanne della CEDU all’Italia per le vicende avvenute nella scuola Diaz in quanto “…in virtù dell’articolo 19 della Convenzione, e conformemente al principio che vuole che la Convenzione garantisca dei diritti non teorici o illusori ma concreti ed effettivi, la Corte deve assicurarsi che lo Stato adempia come si deve all’obbligo di tutelare i diritti delle persone che rientrano nella sua giurisdizione. Di conseguenza, la Corte deve mantenere la sua funzione di controllo e intervenire nel caso esista una evidente sproporzione tra la gravità dell’atto e la sanzione inflitta. Altrimenti, il dovere che hanno gli Stati di condurre un’inchiesta effettiva perderebbe molto del suo senso”.

Ma tant’è!

Per riprendere il filo del discorso della normativa sul reato di tortura e per chiarire anche alcune questioni sollevate dai fatti di Santa Maria Capua Vetere vale la pena aggiungere alcune ulteriori considerazioni e precisazioni.

Tullio Padovani, già Professore ordinario di Diritto Penale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ascoltato nel corso dell’esame parlamentare della proposta di legge per l’inserimento nel codice penale del delitto di tortura (AC. 2168), in Commissione giustizia nel maggio 2014, ebbe poi modo di sintetizzare il suo pensiero all’esito dell’approvazione della legge istitutiva del reato di tortura: “La Convenzione internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984, entrata in vigore per l’Italia l’11 febbraio 1985, impone (art. 4) ad ogni Stato-parte di vigilare «affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressione nei confronti del suo diritto penale» e di rendere «tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità». Il nostro – si sa – è un paese ad alto tasso di ponderazione, lesto nel promettere e cauto nel mantenere, pronto all’impegno e riluttante all’adempimento: tanto riflessivo da risultare meditabondo. Più di ventott’anni son trascorsi, ed alla fine, il patrio legislatore, dopo un andirivieni mortificante tra legislature ed esami parlamentari, ha inteso rendere ossequio e prestare osservanza all’obbligo internazionale assunto prima ancora della caduta del muro di Berlino. Meglio tardi che mai, verrebbe fatto di dire; e così si direbbe in effetti, se ci si limitasse alla lettura della rubrica dell’art. 613 bis c.p. introdotto dall’art. 1, c.1, l. 14 luglio 2017, n. 110: un icastico «Tortura». Ma la lettura del testo induce ad un più desolato giudizio: meglio mai. Meglio il bollo della vergogna per lo sconcio inadempimento, che la vergogna di un adempimento apparente, ipocrita nella forma, dissennato nei contenuti, miserando nella finalità. La lista delle improntitudini è tanto lunga che ad esporla in tutti i punti col dovuto rigore serve un saggio, se non una monografia: le fattispecie ‘capovolte’ che sono, in qualche modo, il simmetrico contrario di principi, regole, norme su cui si erge il sistema, lo evocano, scuotendolo in ogni sua parte; sì che su di esse dovrebbe riversarsi la reazione del sistema tutto, così come, in presenza di una cellula cancerosa, si mobilita, per eliminare l’intrusa pericolosa, l’intero sistema immunitario: quando è efficiente, però; altrimenti è il cancro che si sviluppa”.

In sintesi, per così come è stata redatta, la norma è “la vergogna di un adempimento apparente, ipocrita nella forma, dissennato nei contenuti, miserando nella finalità”.

E ciò a voler tacere anche che, il 16 giugno 2017, alla vigilia dell’approvazione finale da parte della Camera, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, avesse indirizzato ai Presidenti di entrambe le Camere, delle Commissioni Giustizia di ciascuna di esse e al senatore Manconi, quale Presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani costituita presso il Senato, una nota con cui rappresentava serie perplessità su taluni aspetti del testo approvato dal Senato e ritrasmesso alla Camera, che, a suo avviso, apparivano in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e con la Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura – UNCAT.

In particolare, le preoccupazioni espresse dal Commissario erano relative al fatto che, per la configurabilità del reato di tortura, fossero necessarie “più condotte di violenza o minacce gravi ovvero crudeltà”; che la tortura venisse configurata anche in presenza di trattamenti inumani e degradanti (laddove l’articolo 3 della Convenzione EDU prevede la disgiuntiva “trattamenti inumani o degradanti”); inoltre, specificamente in relazione alla tortura di tipo psicologico, che essa cagioni un trauma verificabile sotto tale profilo. 

La nota del Commissario europeo ribadiva ulteriori divergenze della definizione contenuta nella proposta di legge rispetto a quella di cui all’art. 1 della Convenzione ONU sulla tortura e che ciò comportava il concreto rischio che episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restassero non normati, dando luogo a casi di impunità. Inoltre la nota, considerato che il testo approvato dal Senato adottava una definizione ampia di tortura che ricomprendeva anche i comportamenti di privati cittadini, sottolineava l’importanza di garantire che questo non conducesse a indebolire la tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali.

Ovviamente. la nota è stata completamente disattesa.

Eppure, anche l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) statuisce che nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.

La Corte di Strasburgo ha più volte stabilito che il divieto di tortura non consente eccezioni, né limitazioni, né bilanciamenti di alcun genere, né soffre alcuna possibilità di deroga in quanto siamo di fronte ad una norma cardine per la tutela psico-fisica dell’individuo. 

Checché ne dicano i soliti benpensanti per cui le guardie penitenziarie erano stressate, stanche per i turni massacranti, preoccupate per il contagio da covid o perché semplicemente reagivano alle proteste dei ristretti…

Concludo proprio con le parole della sentenza del 22/06/2017 della Corte Europea Diritti dell'Uomo, sez. I, sul caso Diaz: “La tortura costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia. E, in effetti, nasce là dove mancano, o sono indebolite, tutte quelle garanzie istituzionali processuali che della democrazia sono l’espressione indispensabile. Democrazia significa rispetto della dignità della persona; tortura significa umiliazione o annientamento di quella dignità”.


Commenti