La battaglia di Welby

Tredici anni fa moriva Piergiorgio Welby.

Era affetto da distrofia fascioscapolomerale, una malattia gravemente degenerativa, e dal 1997 riusciva a sopravvivere solo grazie al respiratore automatico al quale era stato collegato.
I trattamenti sanitari cui era sottoposto gli consentivano di resistere alla morte ma non di vivere una vita degna.
Per Welby «...vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude... Purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche.».
Mancava, in Italia, in quegli anni una normativa organica sul fine vita e le risposte della Magistratura non erano ancora nette e definite.
Welby dovette essere un pioniere e la sua morte dovette essere il germe per la nascita di nuovi diritti.
Conscio del suo diritto all’autodeterminazione, e data l’impossibilità di staccare il respiratore in virtù di un provvedimento del Tribunale cui pure si era rivolto, aveva trovato un medico anestesista, il dott. Mario Riccio, disponibile a raccogliere la conferma della sua volontà e, quindi, a procedere prima alla sedazione e, poi, al distacco del ventilatore automatico.
A carico del dott. Riccio si aprirono due procedimenti, il primo disciplinare dell'Ordine dei Medici, e il secondo penale per la violazione dell'art. 579 c.p., ossia l'omicidio del consenziente.
In entrambi i casi vi fu l'assoluzione dell'anestesista.
Più in particolare il GUP di Roma, richiamando i principi costituzionali, mise in luce che nell’ordinamento italiano “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“, richiamando, innanzitutto, l’art. 13 Cost., secondo il quale “la libertà personale è inviolabile“, desumendo da ciò il diritto all’autodeterminazione del paziente.
Il GUP evidenziò, in definitiva, che nella Carta costituzionale si rinviene il rispetto della volontà del paziente e il diritto a disporre del proprio corpo, anche attraverso il rifiuto delle cure mediche.
In sintesi, affermò il GUP, il comportamento del dott. Riccio rientrava nella norma che punisce l’omicidio del consenziente ma, al contempo, la condotta del medico si era realizzata nel contesto di una relazione terapeutica e, quindi, sotto la copertura costituzionale del diritto del paziente di rifiutare trattamenti sanitari non voluti.
Di strada da allora ne è stata percorsa tanta, abbiamo la legge sul biotestamento e la sentenza della Consulta sul caso Cappato ma, come riferito ieri in Parlamento dal Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, il professor Lorenzo d’Avack, una decisione da parte del Parlamento “sarà necessaria in quanto precisamente richiesto dalla sentenza della Consulta”. “Tale legge dovrà regolare diversi aspetti, come ad esempio l’obiezione di coscienza da parte dei medici e che cosa si intenda per trattamenti di sostegno alla vita”.

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