La pena pecuniaria e i principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena secondo la Consulta

 


“Il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasforma la possibilità di sostituire il carcere con la pena pecuniaria in un privilegio per i condannati abbienti.”.

È quanto ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza n°28 del 1° febbraio 2022 (redattore Francesco Viganò), con la quale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 53, comma 2, della legge n°689 del 1981, per violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena.

La Corte ha in buona sostanza stabilito che ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna, fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro. Peraltro, poiché il Parlamento ha recentemente delegato il Governo a modificare la disciplina della sostituzione della pena detentiva, la Corte ha evidenziato che il legislatore può, nella sua discrezionalità, individuare soluzioni diverse e, in ipotesi, ancor più aderenti ai principi costituzionali definiti nella sentenza.

Questa interessante pronuncia prende le mosse dall’ordinanza del 14 aprile 2021 con la quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 2, della citata legge n°689 del 1981, «nella parte in cui detta disposizione prevede che, nel determinare il quantum della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva di durata inferiore a sei mesi, il Giudice individui il valore minimo giornaliero di un giorno di reclusione nella misura della somma indicata dall’articolo 135 c.p., pari a 250,00 euro, anziché nella minor somma di 75,00 € prevista dall’articolo 459, co. l-bis c.p.p.», ritenendola in contrasto con gli artt. 3, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE). 

Secondo il GIP di Taranto, inoltre, la norma veniva reputata incostituzionale nella parte in cui «non prevede che il Giudice, nel determinare la pena pecuniaria sostitutiva di pena detentiva di durata inferiore a sei mesi, […] possa fare applicazione del criterio di adeguamento della pena pecuniaria minima previsto dall’articolo 133-bis c.p.».

Osservava tra l’altro il giudice a quo che, sulla scorta della documentazione dell’Agenzia delle Entrate attestante la situazione reddituale dell’imputato e acquisita in atti, la pena pecuniaria pari ad € 22.500,00  -determinata nel caso di specie ed in virtù delle norme richiamate-  sarebbe stata sostanzialmente pari ai redditi dichiarati nell’anno 2020 e, di conseguenza, del tutto sproporzionata rispetto alle condizioni economiche dell’interessato. Anche in ipotesi di rateizzazione, l’ammontare degli importi dovuti sarebbe stato tale da pregiudicare sensibilmente la capacità economica del reo.

Il giudice rimettente richiamava, pertanto, i principi enunciati dalla stessa Corte Costituzionale in materia di necessaria proporzionalità della pena al disvalore del fatto illecito commesso (cfr. sentenze n°236/2016, n°341/1994, n°409/1989 e n°50/1980), anche a garanzia dell’effettività della funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. (cfr. sentenze n°251/2012, n°341/1994, n°343/1993 e n°313/1990).

Più in particolare, il giudice a quo ha citato i principi desumibili dalla sentenza n°15/2020, che evidenziava esplicitamente «l’irragionevolezza intrinseca del valore minimo del criterio di conversione delle pene detentive brevi» previsto dalla disposizione censurata. 

Ribadita, quindi, la rilevanza delle questioni sollevate  – atteso che l’applicazione del tasso minimo di ragguaglio stabilito dall’art. 53, comma 2, della legge n°689/1981 imporrebbe il rigetto della richiesta di applicazione della pena sostitutiva formulata dalle parti–  il giudice a quo ha ritenuto che la disposizione censurata contrastasse anzitutto con l’art. 3, secondo comma, Cost., poiché il coefficiente di ragguaglio determinerebbe di fatto una disparità di trattamento tra imputati facoltosi – in grado di assolvere al pagamento della pena pecuniaria, pur se sproporzionata – e imputati meno abbienti. Tale criterio minimo di conversione colliderebbe inoltre con l’art. 27, comma 3, Cost., proprio in quanto in grado di frustrare «l’imprescindibile esigenza di minimizzazione dell’inflizione di pene detentive brevi “gratuite” ed “inutilmente laceranti”» e determinare trattamenti sanzionatori sproporzionati e intrinsecamente irragionevoli. Sarebbe infine violato l’art. 117, comma 1, Cost., in ragione del conflitto della disposizione censurata anche con l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, che vieta l’inflizione di pene sproporzionate rispetto al reato.

La Consulta, nel decidere per una parziale incostituzionalità della norma, ha rimarcato che, se l’impatto di pene detentive della stessa durata è, in linea di principio, uguale per tutti i condannati, non altrettanto può dirsi per le pene pecuniarie: una multa di mille euro, ad esempio, può essere più o meno afflittiva in relazione alle disponibilità di reddito e di patrimonio del singolo condannato. 

Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, allora, la sentenza sottolinea la necessità che il giudice possa sempre adeguare la pena pecuniaria alle reali condizioni economiche del reo, per evitare che risulti sproporzionatamente gravosa. Una quota giornaliera minima di 250 euro, ha precisato la Consulta, è ben superiore alla somma che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone.

La Corte ha concluso che “solo una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una misura proporzionata alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo, nonché la sua effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri Paesi”.


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