Diffamazione a mezzo stampa: la decisione della Consulta

 


Ci risiamo!

Il Parlamento, ancora una volta, dimostra di non essere in grado di legiferare.

Questa volta non si tratta nemmeno di questioni etiche divisive o di materie sensibili e delicate, ma semplicemente di disciplinare in maniera conforme alla Costituzione e alla CEDU il delitto di diffamazione aggravata a mezzo stampa.

Come noto, la Corte Costituzionale, con ordinanza n°132 del 26 giugno dell’anno scorso, Presidente Cartabia, Relatore Viganò, era intervenuta sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Salerno e dal Tribunale di Bari sulla legittimità della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa.

Più precisamente, il Tribunale di Salerno aveva posto questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale e dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), mentre il Tribunale di Bari aveva sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 10 CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, «nella parte in cui sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 256 [recte: 258] euro, invece che in via alternativa».

Con la citata ordinanza, la Consulta rinviava la trattazione delle questioni al 22 giugno di quest’anno «in modo da consentire al legislatore di approvare una nuova disciplina», osservando che il bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione «non può (…) essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni. Il bilanciamento espresso dalla normativa vigente è divenuto ormai inadeguato, e richiede di essere rimeditato dal legislatore “anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (…), che al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive (…) nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui”, e ciò anche in funzione dell’esigenza di non dissuadere i media dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri».




Un così delicato bilanciamento, pertanto secondo la Consulta, spetta primariamente al legislatore, che è il soggetto più idoneo a disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come in primis l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico.

Come volevasi dimostrare, invece, il Parlamento ha pensato bene, per l’ennesima volta, di non prendere posizione e di non disciplinare la materia.

Pertanto, passato l’anno, proprio nei giorni scorsi, il Giudice delle Leggi è stato costretto ad intervenire e, prendendo atto del mancato intervento del legislatore, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948) che fa scattare obbligatoriamente, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni insieme al pagamento di una multa.

È stato invece ritenuto compatibile con la Costituzione l’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che prevede, per le ordinarie ipotesi di diffamazione compiute a mezzo della stampa o di un’altra forma di pubblicità, la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa. Quest’ultima norma consente infatti al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità.

“Resta peraltro attuale la necessità di un complessivo intervento del legislatore, in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento – che la Corte non ha gli strumenti per compiere – tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione, già evidenziati nell’ordinanza 132” precisa il comunicato stampa diramato lo scorso 22 giugno dal Palazzo della Consulta.


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