Cosa resta del caso Enzo Tortora

 


“Che non sia un’illusione”.

Sulla tomba di Enzo Tortora, morto il 18 maggio 1988, c’è questa iscrizione che può sembrare ermetica ed enigmatica.

In effetti, non c’è nulla di misterioso: è soltanto un frammento di una verità dolorosa di ordinaria e straordinaria mala giustizia italiana.

La frase intera la disvela Francesca Scopelliti, l’ultima compagna del presentatore di Portobello: “Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della Sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un’illusione”.

Il calvario di Enzo Tortora, a grandi linee, lo conosciamo tutti.

E non voglio ritornare sui dettagli uno dei più feroci casi di errore giudiziario della recente storia nazionale per sottolineare gli sbagli, le grossolane sviste e le imprecisioni della Magistratura italiana, non voglio rimarcare l’uso disinvolto dei pentiti e della carcerazione preventiva.

Quello che mi preme riaffermare è che il caso Tortora è, forse, il primo caso di gogna mediatica giudiziaria, oggi diventata una vera e propria costante dei processi più rilevanti e clamorosi.

“Aspettando l’ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare “i polsi, i polsi!”, dalla folla i primi verdetti: “Farabutto, pezzo di merda, ladro”. La vendetta sul “famoso” prenderà rapidamente le dimensioni della valanga” scriverà anni dopo il giornalista Carlo Verdelli su “Repubblica” in un superbo articolo che ricostruisce la vicenda umana e giudiziaria del popolare conduttore di Portobello.

È un tema moderno, contemporaneo, ma anche antico quello della gogna affrontato da scrittori e pensatori di varie epoche storiche a partire da “Inno alla gogna” di Daniel Defoe, l’Autore del Robinson Crusoe.

“Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.”.

Questo, ad esempio, è proprio l’incipit della “Storia della colonna infame”, il saggio di Alessandro Manzoni da cui siamo partiti per risolvere il mistero dell’epitaffio di Tortora.

Molti sono i temi e gli argomenti trattati magistralmente da Manzoni: dall’uso della tortura per estorcere informazioni agli imputati alla promessa di benefici e impunità per i delatori (oggi si chiamerebbero collaboratori di giustizia), fino ad arrivare alla spinosa questione del “populismo giudiziario” che prese forma concreta e tangibile proprio nella colonna infame, un monumento alla pubblica gogna.

Certo, oggi, dal caso Tortora in poi, la pubblica gogna comincia prima della condanna, addirittura prima del processo…

Forse questo neanche uno scrittore acuto come Manzoni lo aveva previsto.

Lascio la parola per le conclusioni direttamente al protagonista di questa vicenda. 

La sua voce è un doloroso monito per tutti.

Così scrive, in una lettera del 2 ottobre 1983, Enzo Tortora all’amata compagna:

“Mia cara Francesca, ora è passato il colpo di pugnale, atroce, impensabile (e premeditato) mi ha sconvolto per un giorno intero…L’enormità delle accuse (che comunque infrangono) è accompagnata da una mostruosità procedurale, addirittura inconcepibile…Ciò che a loro preme, a loro urge, a loro è indispensabile, è costruirmi delinquente. In ogni modo: frugando nella pattumiera delle lettere anonime, in preda ad una diabolica frenesia… Ormai è guerra e la conducono da vili…

Comincia a far freddo in cella; chiusi si sente ancora di più. Sono come svuotato, credimi ed ormai indifferente a quello che di nuovo, di infame, hanno detto…Hanno un potere tremendo, inumano, impensabile, in democrazia.

La tortura che i nazisti infliggevano era più rozza, ma migliore. Un colpa alla nuca e via. Ma questi ti rosolano poco a poco, fra i tormenti…

Solo tre categorie di persone non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi ed i magistrati. Io sono la ragione stessa della loro immensa e credo stolida retata nazista. Prima le manette e poi le prove. Principio barbaro medioevale…

Non c’è scuola più dura e più lucida della galera…Si vede che il mio destino era questo: soffrire oltre l’indicibile.. Ma vedi oltre l’inferno (quando l’hai davvero attraversato), neppure le fiamme nuove ti bruciano più…”.

Facciamo davvero “che non sia un’illusione”.


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