Il caso Trentini: politica, diritto e disobbedienza civile

 


“Atti di disobbedienza civile intervengono” scriveva Hannah Arendt nel 1970 “quando un certo numero di cittadini ha acquisito la convinzione che i normali meccanismi del cambiamento non funzionano più o che le loro richieste non sarebbero ascoltate o non avrebbero alcun effetto”.

E aggiungeva che la disobbedienza civile fosse strumento legittimo di avanzamento della legislazione a disposizione di minoranze organizzate di cittadini “quando essi credono che sia possibile far mutar rotta a un governo impegnato in qualche azione la cui legittimità e la cui costituzionalità siano fortemente in discussione”.

La disobbedienza civile, allora, in un caso e nell’altro, si configura come un agire politico volto a spostare in avanti i confini del “diritto”.

Entrambi questi elementi li possiamo ritrovare nell’agire politico di Marco Cappato e Mina Welby in relazione al caso Trentini.

La materia è quella spinosa, da un punto di vista etico e da un punto di vista giuridico, del fine vita, materia non compiutamente disciplinata dal Legislatore e diritto civile e umano inattuato sul quale l’Associazione Coscioni è da anni in prima linea mediante azioni di disobbedienza civile che hanno lasciato il segno nella società italiana, troppo spesso apatica e scettica.

Marco Cappato e Mina Welby, consapevoli del divieto per la legge italiana, anche del solo aiuto al trasporto in Svizzera del malato che ne faccia richiesta, hanno offerto, invece, assistenza a Davide Trentini, cinquantatreenne, da 30 malato di sclerosi multipla, che nell’aprile del 2017 decise di metter fine alle insopportabili sofferenze recandosi in Svizzera. Successivamente, gli stessi si sono autodenunciati presso la stazione dei Carabinieri di Massa, mettendo in pratica una disobbedienza civile avviata con l’associazione Sos Eutanasia soccorso civile, insieme a Gustavo Fraticelli.

Il reato contestato a Welby e Cappato – rispettivamente co-Presidente e Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni – venne inquadrato nelle fattispecie di istigazione e di aiuto al suicidio.

A seguito di un processo molto seguito dagli addetti ai per i risvolti giuridici, etici e sociali, il 27 luglio 2020, Marco Cappato e Mina Welby furono assolti dalla Corte di Assise di Massa “dal reato a loro ascritto perché il fatto non sussiste quanto alla condotta di rafforzamento del proposito di suicidio e perché il fatto non costituisce reato quanto alla condotta di agevolazione dell’esecuzione del suicidio”.

La Corte di Massa, peraltro correttamente a parere di chi scrive, evidenziò che il requisito dei “trattamenti di sostegno vitale”, indicato dai Giudici della Corte Costituzionale con la sentenza n° 242/2019, non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza “da una macchina”, ma si riferisce a qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici, compresi anche la nutrizione e l’idratazione artificiali.

La Corte di Assise ebbe anche modo di chiarire nella sentenza assolutoria di primo grado che il trattamento di sostegno vitale è e “deve intendersi qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida”.

Questa sentenza è il portato di una precedente azione di disobbedienza civile di Marco Cappato, quella in relazione al cd. Caso DJ Fabo che culminò con la citata pronuncia con la quale la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

Ciononostante, lo scorso ottobre 2020, il Pubblico Ministero di Massa decise di ricorrere in appello contro l’assoluzione e la prossima udienza innanzi alla Corte d’Appello di Genova è fissata per il 28 aprile 2021.

Ho sentito nei giorni scorsi l’Avv. Franco Di Paola, salese, valente penalista iscritto all’Ordine degli Avvocati di Lagonegro e componente del collegio difensivo che assiste Marco Cappato e Mina Welby anche nel caso Trentini per capire con quale spirito si apprestava a questa battaglia in Corte d’Appello.

Mi ha dato dapprima una risposta sorniona: “Siamo in attesa di giudizio!”.

Poi, però, sono emersi i temi centrali della questione, ad un tempo giuridici e politici.

“Il nodo centrale da affrontare sarà la critica del PM al requisito del sostegno vitale. Secondo la difesa, anche sulla scorta della testimonianza del nostro consulente, Dott. Mario Riccio, la Corte d’Assise ha interpretato tale requisito in modo rispettoso della decisione della Corte Costituzionale: non la pensa così il Pubblico Ministero che in primo grado aveva già chiesto la condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione per Welby e Cappato. È evidente la nostra idea di rafforzare la decisione già assunta in primo grado.”. 

E poi ha aggiunto: “Perché siamo in appello? La risposta è anche politica, perché il Parlamento continua a non fare quello che dovrebbe: disciplinare le scelte di fine vita come richiesto sia dalla Corte Costituzionale sia dai cittadini con la proposta di legge popolare depositata da ormai sette anni.”.

La lezione di Hannah Arendt sulla “civil disobedience”, passando anche per le parole di Di Paola, si incarna nella battaglia di Cappato e Welby: poiché il potere politico è sempre alla base dell’ordine legale, quando con un atto di disobbedienza civile si critica una legge, non è tanto il sistema giuridico ad essere attaccato quanto piuttosto il potere politico.


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