Il carcere è l'extrema ratio, dice la Ministra Cartabia


 “Resto convinta che una riforma del processo penale deve pure poggiare su meditati interventi di deflazione sostanziale, cui può giungersi, tra l’altro, intervenendo sui meccanismi di procedibilità, incrementando il rilievo delle condotte riparatorie ed ampliando l’operatività di istituti che si sono rilevati nella prassi particolarmente effettivi, come la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato e la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Penso che sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio penale che, assecondando una linea di pensiero che sempre più si sta facendo strada a livello internazionale, ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio”.

Queste le parole pronunciate in settimana dal Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, durante l’audizione in Commissione Giustizia della Camera. 

“Lo sguardo sulle esigenze della giustizia penale – ha continuato – sarebbe incompleto se non tenesse conto anche della fase dell’esecuzione penale, che è oggetto di mie costanti preoccupazioni. E un convincimento in me profondamente radicato, oltre che avvalorato da dati statistici consolidati, che la qualità della vita dell’intera comunità penitenziaria, di chi vi opera, con professionalità e dedizione, e di chi vi si trova per scontare la pena, è un fattore direttamente proporzionale al contrasto e alla prevenzione del crimine”. 

Infine, la già Presidente della Corte Costituzionale ha chiosato: “Perseguire lo scopo rieducativo della pena non costituisce soltanto un dovere morale e costituzionale, come si legge inequivocabilmente nell’art. 27 della Costituzione, ma è anche il modo più effettivo ed efficace per prevenire la recidiva e, quindi, in ultima analisi, per irrobustire la sicurezza della vita sociale”.

Sono lontani i tempi (eppure era solo ieri!) che il Guardasigilli era Alfonso Bonafede e “gli innocenti non finiscono in carcere” (sic!).

Eppure, come attesta il sito errorigiudiziari.com, “per avere una prima idea di quanti sono gli errori giudiziari in Italia vale la pena di mettere insieme sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari in senso stretto. Ebbene, dal 1991 al 31 dicembre 2019 i casi totali sono stati 28.893. In media, poco più di 996 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 823.691.326,45 euro, per una media di circa 28 milioni e 400 mila euro l’anno.”.

In media, a differenza di quanto sosteneva improvvidamente il grillino Bonafede, ben 1025 innocenti finiscono in custodia cautelare ogni anno. Nel solo 2019 i casi di ingiusta detenzione sono stati 1000, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 4.894.510,30 euro, dati in aumento rispetto all’anno precedente sia per il numero di casi (+105) che in relazione alla spesa pubblica (+33%).

Giova allora ricordare che già ad inizio di marzo il Ministro Cartabia, con uno stile che è sintomatico della distanza siderale dal precedente Guardasigilli, ha voluto visitare la sede del DAP e incontrare nella sala Minervini i suoi vertici, il direttore Dino Petralia, il vice Roberto Tartaglia e l'intera struttura del Dipartimento della Polizia Penitenziaria, sottolineando che “come scriveva Calamandrei bisogna aver visto le carceri. E anche io, quando le ho viste, non ho dimenticato i volti, le condizioni, le storie delle persone che ho conosciuto durante le visite fatte con la Corte costituzionale”.

Nel suo breve discorso la Ministra ha, inoltre, definito il carcere “un luogo di comunità, nel quale di conseguenza la situazione complessiva e il benessere di ciascuno alimenta quello di tutti”.

Ovviamente anche la situazione pandemica relativa al Covid-19, sottovalutata dall’Onorevole Bonafede, è stata presa in esame: il Ministro Cartabia ha dato impulso decisivo alla vaccinazione delle comunità penitenziarie composte dai detenuti ma anche dagli operatori e dai volontari impegnati nelle carceri italiane.

I tempi per risolvere i problemi della giustizia italiana sono ancora lunghi ma almeno il populismo giudiziario, l’idea che il carcere sia la panacea di tutti i reati, la teoria che basti inasprire le pene per eliminare i reati, la tesi che in carcere si debba marcire a vita e il concetto stesso di panpenalismo sembrano accantonati definitivamente da Via Arenula.


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