I rifugiati ambientali: tra diritto internazionale e Cassazione


 

È sempre più improrogabile familiarizzare con le locuzioni “profughi ambientali”, “eco profughi” e “rifugiati ambientali”.

Il termine “rifugiato ambientale” fu proposto per la prima volta da Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute, uno dei primi dieci centri di ricerca per lo sviluppo sostenibile al mondo, sin dagli anni Settanta e già nel 1985 Essam El-Hinnawi, allora Direttore del Programma delle Nazioni Unite sull’Ambiente (UNEP), provò a definire i profughi ambientali come quelle “persone che hanno dovuto forzatamente abbandonare le loro abitazioni per necessità temporanee o permanenti a causa di grandi sconvolgimenti (naturali e/o indotti da mano umana) che hanno messo in pericolo la loro esistenza o danneggiato seriamente la loro qualità di vita”.

Norman Myers, tra i massimi esperti mondiali di biodiversità, di recente scomparso, fa rientrare nella categoria di “rifugiato ambientale” tutte quelle persone “che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta, in particolare siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo, ristrettezze idriche e cambiamento climatico, come pure disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni. Di fronte a queste minacce ambientali, tali persone ritengono di non avere alternative alla ricerca di un sostentamento altrove, sia all’interno del Paese che al di fuori, sia su base semi-permanente che su base permanente”.

In dottrina, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, costituita da professori universitari e avvocati, ha contraddistinto due diverse tipologie di “eco profughi”, sottolineando che “esistono i profughi ambientali che possono essere costretti a lasciare la loro terra per problemi ambientali a insorgenza rapida, ossia frane, eruzioni, inondazioni, terremoti, i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, o per problemi a insorgenza lenta, come siccità, desertificazione, salinizzazione. E accanto a questi possiamo parlare di profughi climatici quando determinati eventi ambientali sono causati dai cambiamenti generati dall’uomo, dall’industrializzazione forzata e tutto quello che ne consegue”.

Nel diritto internazionale pattizio lo stretto vincolo tra flussi migratori e disastri ambientali è stato previsto nella “Convenzione delle Nazioni Unite contro la Desertificazione” del 1994 laddove si evidenzia che “la desertificazione e la siccità compromettono lo sviluppo sostenibile vista la correlazione esistente tra questi fenomeni e importanti problemi sociali come la povertà, una inadatta situazione sanitaria e nutrizionale e l’insicurezza alimentare, nonché quelli risultanti da migrazioni, spostamenti di popolazioni e dinamiche demografiche”.

Anche nel preambolo dell’Accordo di Parigi relativo ai cambiamenti climatici si fa esplicito riferimento ai diritti umani laddove si precisa che gli Stati che hanno aderito all’accordo “devono rispettare, promuovere e considerare i loro doveri in relazione ai diritti umani, in modo particolare al diritto alla salute, diritto allo sviluppo, diritto delle popolazioni indigene, delle comunità locali, dei migranti, dei bambini, delle persone disabili e di coloro che sono particolarmente vulnerabili agli effetti negativi del cambiamento climatico”.

Giova evidenziare, tuttavia, che né la Convenzione del 1994 né gli Accordi di Parigi del 2015 riconoscono alcuna protezione per i profughi ambientali costretti a trasferirsi per via della desertificazione e del cambiamento climatico.

Pochi giorni fa, sulla questione è intervenuta la Seconda Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n°5022/2021 che pronunciandosi in tema di protezione umanitaria in relazione ad un richiedente asilo proveniente dal Delta del Niger, ha affermato che l’accertamento effettuato dal giudice di merito in ordine al presupposto del “nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale”, investe, non solo, l’esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima, ivi inclusi i casi del disastro ambientale, definito dall’art. 452-quater c.p., del cambiamento climatico e dell’insostenibile sfruttamento delle risorse climatiche.

È noto, infatti, che decenni di fuoriuscite di petrolio hanno trasformato il Delta del Niger in uno dei luoghi più inquinati della Terra. 

Gli Ermellini, richiamando anche che il caso ONU n°2727 del 2006, hanno ritenuto che il divieto di rimpatrio di un richiedente asilo in un contesto territoriale in cui esistono sostanziali rischi di danno irreparabile all'incolumità sua e dei suoi familiari si applica a tutte le condizioni di pericolo “poiché il diritto individuale alla vita comprende anche quello ad un'esistenza dignitosa e alla libertà da ogni atto od omissione che possa causare una innaturale o prematura scomparsa della persona umana”.

In definitiva appare chiaro che la valutazione di pericolosità diffusa esistente nel Paese di provenienza del richiedente non dovrà essere condotta con esclusivo riferimento a conflitti armati: a rilevare dovrà essere una nozione più ampia di pericolo per vita individuale, una nozione che tenga finalmente anche conto dei fattori ambientali e climatici.


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