Il ddl Zan e la libertà di manifestazione del pensiero

 


Con il ddl Zan, approvato alla Camera pochi giorni fa, l'art. 604 bis c.p. -che oggi punisce le discriminazioni razziali, etniche, nazionali e religiose- viene integrato in relazione alla repressione degli atti discriminatori fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”.

Ne deriva che se il ddl verrà approvato anche dal Senato, in futuro sarà punito con la reclusione fino ad un anno e 6 mesi o multa fino a 6.000 euro, chiunque istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati su tali motivi (primo comma, lett. a); con la reclusione da 6 mesi a 4 anni, chiunque istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per tali motivi (primo comma, lett. b); con la reclusione da 6 mesi a 4 anni, chiunque partecipa o presta assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per tali motivi (secondo comma).

Come anticipato in precedenti interventi su queste pagine telematiche, la principale contestazione che viene mossa dai detrattori del provvedimento normativo è quella relativa ad una pretesa limitazione della libertà di manifestazione del pensiero.

Al di là delle tesi più fantasiose dei soliti complottisti che paventavano addirittura la messa all'indice di Vecchio e Nuovo Testamento, durante i lavori parlamentari la questione è stata ampiamente dibattuta. 

Dall’analisi della scheda informativa, reperibile sul sito della Camera, si evince chiaramente che, con riferimento al provvedimento, sono state esaminate le previsioni degli articoli 3 e 21 della Costituzione e le implicazioni che da esse potevano scaturire nell’elaborazione finale del testo di legge.

L'articolo 3, primo comma, Cost. stabilisce che "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali".

L'articolo 21, primo comma, Cost. prevede che "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".

L'ultimo comma stabilisce, inoltre, che "Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni".

La giurisprudenza costituzionale sull’art. 21 ha chiarito che la libertà di manifestazione del pensiero incontra limiti ulteriori "stante la necessità di tutelare beni diversi, parimenti garantiti dalla Costituzione". 

Come precisato dalla Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 20 del 1974, infatti, "il concetto di limite è insito nel concetto di diritto" e "nell'ambito dell'ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente perché possano coesistere nell'ordinata convivenza civile".




Testualmente dalla scheda: <<Per quanto concerne la necessità di un fondamento costituzionale dei limiti impliciti, la Corte ha precisato che "l'indagine va rivolta all'individuazione del bene protetto... e all'accertamento se esso sia o meno considerato dalla Costituzione in grado tale da giustificare una disciplina che in qualche misura possa apparire limitativa della fondamentale libertà in argomento": ciò che implica il compimento, da parte del legislatore, di un giudizio di bilanciamento tra i due valori contrapposti, diretto a stabilire, secondo criteri di ragionevolezza, quale di essi sia da considerare prevalente, peraltro non sino al punto che il diritto soccombente "ne risulti snaturato o ne sia reso arduo o addirittura impossibile l'esercizio" (sentenza n. 106/1974 e nn. 18/1966, 188/1975, 16/1981, 126/1985, 138/1985)...

Si ricorda infine, quanto al reato di istigazione, che la Corte di Cassazione (Sez. V, 24 gennaio 2001, n. 31655) ha individuato una linea di demarcazione tra il reato di istigazione a compiere atti di discriminazione e il diritto di libera manifestazione del pensiero, sancito nell'art. 21 Cost., in quanto «l'incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come comportamento generale, e realizza un quid pluris rispetto ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali»>>.


Del resto, anche la Commissione per gli Affari Costituzionali aveva "suggerito" che la norma evidenziasse che “non costituiscono istigazione alla discriminazione la libera espressione delle idee o la manifestazione di convincimenti o di opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, nonché le condotte legittime riconducibili alla libertà delle scelte, purché non istighino all’odio o alla violenza, ossia non presentino un nesso con atti gravi, concreti ed attuali”. 


Il testo approvato, peraltro, ricalca sostanzialmente il dettato costituzionale dell’art. 21 Cost. (“sono consentite la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte”), e lascia, in definitiva, all’interprete l’incarico di fissare, di volta in volta, la linea di demarcazione tra una condotta legittima di espressione del pensiero e una esternazione di convincimento che possa acquistare un carattere discriminatorio.

Insomma, una soluzione ragionevole.

Gli amici della CEI potranno stare tranquilli: nessuno censurerà la Bibbia o le omelie dei parroci.


La questione del "discorso di incitamento all'odio", il cd. hate speech, oltre che per le discriminazioni razziali, etniche, nazionali e religiose anche in relazione alle donne, ai disabili e alle persone LGBTI, è un tema molto complesso che difficilmente potrà trovare sintesi in poche righe e merita ben ulteriore approfondimento. Magari partendo dalla storia dei nazisti dell’Illinois…

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