“Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi
atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati
sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di
memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de'
supplizi, la demolizion della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di
più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi
infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato
e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.”.
Questo è l’incipit della “Storia della colonna infame”, un saggio
di Alessandro Manzoni su un caso di mala giustizia, originariamente pensato
come “digressione” all’interno de “I Promessi Sposi” ma poi pubblicato come
opera autonoma nel 1840.
Nel bel mezzo della peste, in un feroce clima alimentato dalla
disperazione per i morti e da superstizioni popolari, una donna del popolo accusò
Guglielmo Piazza, un funzionario pubblico, di essere un untore che diffondeva
il morbo con unguenti procacciati dal barbiere Gian Giacomo Mora.
Molti sono i temi e gli
argomenti trattati efficacemente da Manzoni: dall’uso della tortura per
estorcere informazioni agli imputati alla promessa di benefici e impunità per i
delatori (oggi si chiamerebbero collaboratori di giustizia), fino ad arrivare
alla spinosa questione del “populismo giudiziario” che prese forma concreta e
tangibile proprio nella colonna infame, un monumento alla pubblica gogna.
Ma una questione
Alessandro Manzoni non seppe prevedere: la pubblica gogna ancora prima del
processo, la morte civile dell’indagato ancora prima che si entri nell’aula del
Tribunale, la trasformazione in mostro del sospettato prima ancora della
sentenza di condanna.
Mi spiego meglio: lo scorso
23 dicembre, il GIP ha rimesso in libertà due indagati nell’inchiesta “Angeli
& Demoni”, meglio nota al pubblico come “i fatti di Bibbiano”, evidenziando
come non fossero più presenti esigenze cautelari o di inquinamento delle prove.
Ciò che sconvolge sono
le motivazioni rese dal Magistrato, che peraltro non fa che prendere atto della
situazione che si è venuta a verificare nel caso di specie: «concordemente con
il PM deve ritenersi che allo stato, proprio in ragione della distruzione
dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro
incolumità», il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via
scemando».
E prosegue il GIP: «i
contatti (eventualmente di possibile riallaccio da parte degli indagati) con il
mondo politico e ideologico di riferimento proprio in ragione dell’ampio
risalto negativo dato dai mass media alla vicenda, non avranno verosimilmente
in concreto esiti negativi per la genuinità dell’acquisizione probatoria in un
futuro giudizio, posto che il timore per la propria immagine pubblica che un
appoggio diretto agli indagati comporterebbe (se scoperto) costituirà un
adeguato “cordone sanitario” più di qualsivoglia altra misura cautelare»…
“La colonna infame fu
atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in
quell'occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina Rosa, L'infernal
dea che alla eletta stava, intonò il grido della carnificina: sicché non c'è
più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa. Allo
sbocco di via della Vetra sul corso di porta Ticinese, la casa che fa
cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio
dov'era quella del povero Mora.”.
Il processo per i fatti
di Bibbiano è ancora di là da venire, solo fra qualche anno potrà essere
conosciuta la verità processuale; nel frattempo, però, abbiamo già eretto la
nostra moderna colonna infame.
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