Gli haters di Mattarella


È di pochi giorni fa la notizia che la Procura di Palermo ha chiuso l’indagine per il reato di “Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica” e per “Istigazione a delinquere” e si appresta chiedere il rinvio a giudizio per nove persone, originarie di diverse città italiane tra cui Palermo, Bari, Varese, Milano, Roma, Foggia e Venezia, che, nel 2018, sui social network, insultarono e minacciarono il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella; per altri trenta cittadini  -tra i 30 e i 74 anni-  le indagini sono ancora in corso.



Gli scritti offensivi e minacciosi inondarono le pagine social dopo che il Quirinale decise di affidare l’incarico per la formazione del Governo al Prof. Carlo Cottarelli. Tra le frasi postate su Facebook, molte ricordavano spregiativamente la drammatica fine del fratello del Capo dello Stato, l’ex Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, assassinato dalla mafia nel 1980.


Il reato previsto e punito dall’art. 278 c.p., norma che tutela l’onore e il prestigio legati alla persona del Capo dello Stato, presidio costituzionale delle istituzioni dello Stato italiano, comporta la reclusione da uno a cinque anni.

Il reato si consuma quando viene comunicata, con qualsiasi mezzo, un’offesa relativa alla persona del Presidente della Repubblica sia in riferimento a fatti inerenti l’esercizio o le funzioni cui è investito, sia in relazione a fatti che riguardano l’individualità privata del Capo dello Stato, e ciò anche in relazione a situazioni anteriori all’attribuzione della carica.

Per la giurisprudenza della Cassazione, “l’ipotesi criminosa enunciata nell’art. 278 c.p. non richiede affatto, per l’integrazione della fattispecie, il vilipendio, ma prevede semplicemente l’offesa all’onore o al prestigio del Capo dello Stato... Per la sussistenza del delitto previsto dall’art. 278 c.p. non è richiesto un dolo caratterizzato da specifiche finalità, ma è sufficiente la mera volontà di compiere l’azione offensiva con la consapevolezza di arrecare ingiuria alla persona investita della carica di Capo dello Stato”.

Come ovvio, in casi come questo, occorre delineare un limite tra il diritto costituzionalmente riconosciuto di esprimere le proprie opinioni, il cd. diritto di critica, corollario della libertà di manifestazione del pensiero garantito dall’art. 21 Cost., ed il reato mediante il quale si offende l’onore ed il prestigio del Capo dello Stato.

Più volte nel dibattito pubblico, politico e giornalistico, ma anche sulle stesse pagine social, discutendo tra privati cittadini, si è parlato di “diritto all’odio” e si è rivendicato il diritto di odiare questa o quella persona, questo o quel partito o organizzazione, questa o quella idea o pensiero. E tanto più si rivendica questo diritto ad odiare chi la pensa in modo diverso, tanto più il dialogo ne risente, si accartoccia e si spegne.

C’è poi il tema dei Cattivi Maestri, i veri fomentatori del linguaggio dell’odio, gli istigatori della violenza verbale che si vuol far passare per libertà di espressione, i quali, però, quando i nodi “giudiziari” arrivano al pettine sono già sgusciati via.

Nel frattempo, oggi, nove cittadini italiani, aizzati dai loro capi e capetti, dovranno affrontare un serio processo penale, semplicemente perché troppo ingenui, ineducati ed inesperti dei social per capire che denigrare pubblicamente il Presidente della Repubblica non è esercizio di libertà ma un vero e proprio reato.

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