L'ottobre caldo dell' ordinamento penitenziario

Nel mese di ottobre 2019 sono intervenute due importanti pronunce in materia di Ordinamento Penitenziario.


La prima, della Corte dei Diritti Umani di Strasburgo, che rigettando il ricorso proposto dall’Italia ha condannato il “Belpaese” per la violazione dell’art. 3 della Convenzione, ovvero per tortura e trattamenti inumani e degradanti in relazione al cd. “ergastolo ostativo” in quanto al soggetto detenuto non è possibile eliminare anche la speranza di un recupero sociale ma gli va riconosciuta la possibilità di pentirsi e di avere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni; 
la seconda, della Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata.

Tali sentenze hanno inevitabilmente scatenato una ridda di polemiche politiche e giornalistiche, alcune anche grottesche, se non ridicole, come quella di fare ricorso avverso la sentenza della Corte Costituzionale o, addirittura, di modificare la Costituzione al fine di rendere costituzionale l’ergastolo ostativo…

Non possiamo in questa sede entrare nei dettagli, ma è necessario solo ricordare che tale normativa d’urgenza, emanata all’indomani della strage di Capaci, venne adottata con il D.L. 8 giugno 1992, n. 306, che introduceva il principio secondo il quale i condannati per uno dei delitti di certa riferibilità al crimine organizzato potessero essere ammessi ai benefici premiali solo se avessero collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter della legge ordinamentale. Veniva così immessa nel sistema una rigida presunzione ex lege di pericolosità sociale di questi soggetti, presunzione che, a sua volta, si basava sull’ulteriore presunzione di permanenza dei legami con le associazioni criminali di provenienza. In virtù di queste presunzioni, l’interruzione dei collegamenti con la criminalità organizzata poteva essere comprovata solo attraverso una esplicita scelta di collaborazione con la giustizia.

Per l’Unione delle Camere Penali (e per tanti altri giuristi, politici e giornalisti garantisti) la sentenza della Corte Costituzionale cancella un principio orrendo, quello del carcere senza nessuna speranza, e costituisce un provvedimento che non intacca in nessun modo la sicurezza e il diritto dei cittadini ad essere protetti dalla criminalità organizzata.

Queste sentenze, a mio parere, è un successo anche per i magistrati di sorveglianza perché adesso, di volta in volta, potranno applicare i valori fondanti della Carta Costituzionale e dei Diritti dell’Uomo, senza essere vincolati da rigide presunzioni. Potranno, così, decidere in coscienza e secondo il principio per cui la mancata collaborazione con la giustizia non impedisce i permessi premio purché ci siano elementi che escludano collegamenti con la criminalità organizzata.

Tutti dobbiamo essere convintamente antimafiosi ma ogni soluzione al problema mafioso deve inserirsi nella cornice dei princìpi costituzionali e dello stato di diritto.

Ancora una volta, fortunatamente, il bilanciamento dei poteri offre un’importante prova di tenuta istituzionale e una decisiva difesa dal populismo giustizialista, quello secondo il quale, ad esempio, chi vuole un sistema carcerario rispettoso dei diritti umani è un colluso con i mafiosi...

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